Articolo su Donna (inserto de La Repubblica)
di Carlotta Maganini
26 Aprile 2013

 

 

Un estratto dell’intervista di Marta Csabai, direttrice della rivista ungherese di psicoanalisi THALASSA (Budapest, 2004/1) con Bice Benvenuto.

 

  1. C.: Il tuo libro sulla Villa dei Misteri tratta di “viaggi” tra culture, tra registri diversi della psiche, tra l’Uno e l’Altro. Potresti dirci cosa ne pensi delle differenze culturali – nazionali – della psicoanalisi? Negli ultimi anni si è discusso molto sui possibili effetti della globalizzazione anche sulla psicoanalisi – il suo consumismo, la sua cementazione in un discorso universale semplificato, che potrebbe condurre persino alla sua scomparsa. Che ne pensi di questo processo?
  2. B.: La diffusione di dottrine e pratiche psicoanalitiche in culture diverse da quelle dove sono nate mette non solo in risalto la facile assimilazione, o la testarda impermeabilità, di alcuni paesi nell’accogliere altri pensieri e linguaggi, ma anche il fatto che la differenza si evidenzia, come sulla scena più vasta della storia di questo momento, in modo trasversale. C’è una tendenza, anche se ancora marginale rispetto al potere di scuole e scuolette analitiche, non solo a un rimescolamento dei linguaggi ma anche dei raggruppamenti ideologici precedenti. Un esempio è il ritorno di interesse, un po’ in tutto il mondo, per la Maison Verte, luogo di accoglienza per bambini e genitori, ideato dalla psicoanalista francese Françoise Dolto. Una delle novità consiste nella pluralità delle competenze e formazioni degli operatori che vi partecipano. Nate come luoghi per accogliere e prevenire il disagio psico-sociale di bambini e genitori, le “maisons vertes” mettono al lavoro la particolarità e inventiva di ciascun operatore e ciascun bambino o genitore nella co-esistenza in un luogo sociale. Inoltre lo psicoanalista che vi partecipa ha fatto una scelta culturale precisa: che la psicoanalisi esca dai suoi rituali aristocratici e borghesi da XIX secolo (il divano, il rito confessionale privato di lusso ecc.), e vada per le strade a incontrare la gente e i suoi bambini (al fine di non farne presto futuri pazienti della salute mentale). Che la montagna vada da Maometto, insomma, se non ci si può permettere di andare alla montagna della cura psichica. Il “saper fare” analitico non ha bisogno necessariamente di un divano e uno studio impeccabile, il saperci fare analitico non ha casa o patria ma è l’ascolto di quelle particolarità sociali e culturali in cui sta operando. Questo si, potrebbe portare alla scomparsa di una disciplina univoca, dettata da poteri formatori che detengono il sapere dei “mâitres à penser”, ma anche alla ricostruzione più rigorosa dei concetti portanti della psicoanalisi al di là di gerghi e chiusure di gruppo.

M.C.: Françoise Dolto, il cui lavoro è stato introdotto in Ungheria solo da qualche anno, era particolarmente interessata all’impatto sullo sviluppo dei bambini dell’ambiente costruito intorno a loro. Per Françoise Dolto era molto importante dare ai bambini i loro spazi nelle grandi città, da utilizzare secondi i loro bisogni. So che stai lavorando alla realizzazione di una “Casa Verde”. Vedi quindi una importanza specifica della città – la sua architettura, i suoi spazi e il suo simbolismo – per lo sviluppo del bambino? O consideri le ultime teorie di una terapeutica dell’architettura e dello spazio urbano niente di più di un’utopia?

B.B.: Se gli viene permesso, il bambino sa ritagliarsi il suo spazio in una reggia come in una capanna. Il punto è se glielo si lascia fare. Ricordo come nella salubre campagna inglese di lusso di Tonbridge Wells, dove vive principalmente l’alta borghesia britannica, non percepissi la presenza dei bambini. “I bambini si devono vedere ma non sentire”, dice un popolarissimo motto inglese. Ebbene questi bambini, allevati all’interno di un’architettura confortevole e salubre, ne usufruiscono in minima parte, a stento giocano nel proprio giardinetto quando, raramente, il tempo lo consente o nei ritagli di tempo tra vari doveri, o con il compagno di giochi scelto dal genitore. Nel culto della “privacy” l’adulto non accoglie il bambino nel suo mondo, c’è una netta separazione degli spazi. D’altro canto in una città grande e caotica come Napoli, da bambina sono cresciuta tra i cortili condominiali, in guerra coi portieri e gli inquilini “antipatici”, con il caos delle macchine a pochi passi dal cancello del proprio cortile o giardinetto, o a innalzare tende sui balconi di casa se non sul letto dei genitori. Ritagli di spazi donati o conquistati da bambini che condividevano anche lo spazio degli adulti. Così può accadere che la salubre architettura della campagna inglese releghi il bambino in un suo rigido spazio, e che una giungla di cemento di una metropoli caotica sia in grado di ritagliare, offrire e accogliere lo spazio sempre un po’ verde del bambino. Certo la mia esperienza infantile di un confortevole quartiere piccolo borghese non è paragonabile a quella delle periferie degradate di una qualsiasi metropoli occidentale o orientale che sia. La frattura tra povertà e benessere è universale, anche nell’architettura. Da qui lo spazio “utopico” della Dolto, non uno spazio costruito artificiosamente a misura dei bambini, come nelle scuole Montessori per esempio. La prima Maison Verte inaugurata nel 1979 in un quartiere popolare di Parigi, era un grosso stanzone di bottega allestito con i pochi soldi di un finanziamento comunale. Puro spazio da inventare e creare da parte di entrambi bambini e adulti. La Dolto era, si, interessata all’impatto dell’ambiente sul bambino, ma ambiente nel senso di architettura della coesistenza. La novità assoluta della maison verte, che viene sperimentata in strutture che copiano quel modello anche in Italia, è che per la prima volta si allestisce uno spazio che debba accogliere bambini e adulti insieme. Si introducono, insieme agli angoli di gioco, di lettura, di acqua e sabbia, anche arredamenti ideati per il piacere dell’adulto da accogliere con cura, al pari dei loro bambini. Non un mondo ovattato o precostruito sulla base di qualche moda psicologica del momento, ma un mondo che accolga e rispetti il mondo dell’adulto come quello del bambino, dell’immigrato come dell’indigeno, del ricco come del povero. Dove insieme ad un proprio spazio si possa anche cercare il proprio posto tra gli altri. Nell’era delle navigazioni solitarie su internet sarà la Maison Verte un’utopia? Spero di sperimentarlo presto. (*)

(*) Al momento in cui si sta editando questo estratto, l’Associazione Dolto ha già realizzato per 5 mesi un piccolo esperimento pilota di Casa Verde in una scuola dell’infanzia di Monteverde a Roma. Ancora troppo poco per dire l’ultima parola ma abbastanza per cominciare a dirne qualcosa. Prima di tutti lo hanno fatto i genitori che hanno frequentato la casa verde, con unalettera aperta a testimonianza di questa loro esperienza. Anche per gli operatori della casa verde non è stata un’esperienza dell’ordine dell’utopia (anche se essa è all’orizzonte di qualsiasi impresa) ma lavoro di elaborazione e ricerca delle coordinate che legano lo psichico al familiare e al sociale. Per il momento non vedo altra possibilità di prevenzione del dolore psichico se non prendendosene cura allo stato nascente, e nel vivere quotidiano.